“Room”- Potere all’immaginazione

Articolo di Andrea Vallese

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Ho sempre amato molto i film che raccontano le storie dal punto di vista dei bambini. Il loro modo di vedere, spiegare, raccontare è intriso di una sicurezza e determinazione che farebbero invidia a qualsiasi adulto. E sono spesso gli adulti a sottovalutare questo grande potenziale. Per questo se qualcosa crea disagio ad un adulto, giustamente, si ritiene che per un bambino può essere ancora più traumatico. Ecco perché quando ho iniziato a vedere Room (2015) di Lenny Abrahamson, adattamento del romanzo Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue ho pensato che sarebbe stato un film difficile da digerire, ma sono stato piacevolmente smentito.

Nella piccola stanza del titolo (in realtà un capanno in giardino con un solo lucernario sul soffitto a fare da filtro con l’esterno) vivono Jack (fin dalla sua nascita, cinque anni prima) e sua madre Ma’ (rapita e rinchiusa lì dentro da Old Nick due anni prima ancora). La giovane madre al fine di proteggere il figlio da questa verità angosciante e terribile, lo cresce nella convinzione che il mondo sia tutto nella stanza e che fuori c’è il “cosmo”. Il bimbo, attraverso quest’informazione distorta, elaborerà una realtà nella quale gli oggetti della stanza sono i suoi amici e la Tv la finestra per vedere il cosmo. Per lui tutto va bene, finché Ma’ al limite estremo di sopportazione rivela la verità al bambino che (con fatica) accetterà per consentire ad entrambi di progettare la loro fuga e riuscire così ad attuarla. Una volta che il mondo reale prende il posto della stanza sia Ma’ (ritornata ad essere Joy) che Jack dovranno fare i conti con una prospettiva nuova, ugualmente difficile per entrambi, ma con prospettive diverse.

Il regista, sia nella prima, ma soprattutto nella seconda parte della storia, costringe lo spettatore a barcamenarsi tra la consapevolezza per Ma’/Joy della sua adolescenza perduta e la capacità di Jack di riuscire a meravigliarsi di un mondo che diventa pian piano sempre più grande e ad accoglierlo. Una visione, quest’ultima, così inverosimile per un adulto, ma così efficace da convincere che quella prigione orribile possa rappresentare per un bambino il luogo di preparazione per un mondo meraviglioso che è li fuori che lo aspetta. Inutile sottolineare che tutto questo sarebbe impossibile senza l’ottima interpretazione di Brie Larson (premiata con l’Oscar l’anno scorso) e, soprattutto, del piccolo Jacob Tremblay (anch’egli meritevole di vincerlo).

Questo è un film che scuote sicuramente lo stato d’animo, ma che personalmente mi ha riportato ad una scena di un altro grande film L’Attimo Fuggente di Peter Weir (1989), quando il professore interpretato dal compianto Robin Williams comunicava ai suoi studenti da sopra una cattedra che il mondo va visto da angolazioni diverse. Ho sempre creduto vera quest’affermazione, ma solo dopo Room ho capito quanto il potere dell’immaginazione faciliti quest’ottica a livello esponenziale. Arrivato alla fine del film mi sono scoperto stupidamente memore di quando, da bambino, la mia camera riusciva ad arrivare a dimensioni e forme sconfinate. Solo chi ha visto il film può capire.

“Inside Out”, o, l’arcobaleno emotivo.

Articolo di Giorgia Loi

inside outInside Out” è stato definito da molti il film più riuscito della Pixar, casa di produzione già di per sé molto apprezzata per i propri prodotti di animazione.

Faccio una premessa personale: con i film della Pixar, io, sono pessima.  Non ho visto quelli che vengono considerati i suoi capolavori. Mi sgridano tutti, provvederò al più presto, ma intanto non posso fare paragoni con Up o Wall-E e me ne scuso. Non li ho visti perché sono un cuore di pietra, che s’interessa spesso poco di pellicole ad alto contenuto di buoni sentimenti.

Cosa mi ha attratta di “Inside out”, quindi, rispetto ad altri film di rilievo della Pixar? Probabilmente Tristezza.

Sicuramente Tristezza.

Mi ci è voluto tutto il film per affezionarmi a Gioia (forse perchè ho visto il film in italiano, e non con la voce della strepitosa Amy Poehler), che all’inizio avrei invece chiamato “Buonismo”, mentre Tristezza mi ha fatto subito simpatia (passatemi l’ossimoro).

E quello che mi ha detto questo film è che avevo ragione, e che è normale, essendo adulta, che la vita mi abbia a questo punto insegnato ad apprezzare Tristezza.

Da qui in poi la recensione contiene spoiler.

La storia narra dell’orribilmente traumatica fine dell’infanzia, mette in scena quello che succede nella mente e, nonostante offra una specie di lieto fine, dà anche una piccola mazzata allo spettatore.

Tutto inizia con la nascita, di Riley e delle sue emozioni. Il primo sguardo sul mondo genera Gioia, che però è seguita a ruota da Tristezza, Disgusto, Rabbia e Paura. Queste sono le emozioni di base, e dispongono di una cabina di controllo sulla mente della bambina: da esse dipendono le sue reazioni e le sue interazioni con il mondo. Le emozioni si occupano anche di generare i ricordi, che sono sfere il cui colore è dato dall’emozione che li ha generati. Gialli sono i ricordi di Gioia, azzurri quelli di Tristezza, verdi quelli di Disgusto, rossi quelli di Rabbia, viola quelli di Paura.

Tutto va per il meglio, e durante i primi anni di vita l’archivio dei ricordi è pieno di sfere gialle.

Alcuni ricordi sono più importanti di altri: rappresentano quei momenti fondamentali nella costruzione della psiche, dai quali deriva un’attitudine alla vita ed un modo di essere. Sono i Ricordi Base, ed ognuno di essi va a costruire un’Isola della Personalità.

Riley, bambina felice e fortunata, fonda la sua psiche su 5 isole: la Famiglia, l’Amicizia, l’Onestà, l’Hockey su ghiaccio e la meravigliosa isola della Stupidera, hah!

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Viene spontaneo, in questa prima fase del film, andare a cercare nella propria memoria i Ricordi Base, chiedersi “cos’è che mi ha fatto diventare così?”. E credo che lo spettatore adulto si renda conto, nel momento in cui questo pensiero lo sfiora, che il film gli sta sferrando una specie di coltellata emotiva. Perché mah, boh, dove sta la mia Stupidera? Giocavo  a qualcosa da bambino? Sì, certo, ma dov’è il Ricordo Base? Non lo trovo! Sono una persona senza Gioia, dunque?

Beh, niente paura.. circa.

Il film ci spiega che le isole createsi durante l’infanzia sono bellissimi posti destinati a crollare e disintegrarsi in maniera orribile, traumatica e dolorosissima. Quindi, tutto normale, ecco perché non le troviamo, non ci sono più!

Ad un certo punto la vita di Riley viene presa ed accartocciata, strappata, rattoppata: la famiglia si deve trasferire dal Minnesota a San Francisco, senza che Riley (nè lo spettatore) ne sappia il motivo, senza possibilità di appello, senza un’adeguata preparazione.

La bambina si trova di fronte ad un nuovo mondo dove non ci sono certezze, non ci sono gli amici, non c’è la squadra di Hockey, non c’è più nemmeno la cameretta che il camion del trasloco ha accidentalmente portato altrove.

Gioia fa di tutto per vedere il lato positivo delle cose, ma continuano ad accadere cose che generano ricordi di rabbia, disgusto, paura.

Nel marasma generato da questo traumatico cambiamento, succede nella mente di Riley qualcosa di molto strano e nuovo.

Tristezza, come mossa da una forza più grande della propria stessa volontà, inizia a toccare alcune sfere di ricordi gioiosi, gialli, e questi diventano azzurri, tristi.

Questo succede mentre la ragazzina è costretta a presentarsi davanti a tutta la sua nuova classe e, nel raccontare le cose belle che caratterizzavano la sua vita in Minnesota, inizia ad intristirsi e scoppia a piangere. Noi, grandi, riconosciamo immediatamente l’arrivo dell’emozione della nostalgia, quel punto d’incontro tra una gioia ed il dolore di averla persa.

I due personaggi di Gioia e Tristezza dovranno attraversare tutto il mondo della mente di Riley per capire, per capirsi, per rendersi conto di non poter fare a meno l’una dell’altra.

Mentre le due esplorano, letteralmente, i meandri della mente, passando anche in un inquietante subconscio dove abita un gigantesco clown (creepy!!!), tutte le isole della personalità crollano rovinosamente, lasciando Riley preda di un’apatia che appare senza scampo.

Il dolore che vediamo in questa ragazzina (non più bambina) va a sfiorare, pur deviando prima di raggiungerlo, il tema della depressione. Non si tratta certamente di un film per soli bambini, le tematiche che si raccontano, con metafore affatto celate, sono struggenti, pungenti, e domandano allo spettatore di guardarsi dentro, di riconoscere la differenza tra la purezza dell’infanzia e la durezza della crescita, di identificare la malinconia che ricopre tutti i ricordi della fase più felice della vita, e di sapere che per crescere è stato necessario spazzarli via.

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Verso la fine del viaggio attraverso la mente, Gioia si rende conto che non può e non potrà più avere alcun successo senza l’aiuto di Tristezza: quest’ultima è colei che permette alla ragazzina di chiedere aiuto quando le cose non vanno bene, di mostrare la propria fragilità, di non nascondere i problemi ma affrontarne l’esistenza.

Il lieto fine consiste nella presa di coscienza del  fatto che le Emozioni devono collaborare, ogni ricordo può farne convivere al suo interno più di una, e lavorando insieme sarà possibile reagire alle situazioni che la vita porterà e ricreare sempre momenti di felicità.

Nel momento in cui Gioia abbraccia Tristezza, la nostalgia che Riley sta provando può essere espressa a parole. Non si annulla, non fa meno male, ma si elabora, e diventa la base su cui nasce una nuova Isola della Personalità, nella quale si condensano tutte le cose positive dell’infanzia, ridimensionate e riviste alla luce del passaggio ad una nuova fase della vita.

Apprendiamo poi che se ne formeranno altre, ma vediamo anche comparire una minaccia all’orizzonte, che porta il nome di “Pubertà”, e che, sappiamo bene, causerà una nuova distruzione e una nuova ricostruzione verso la vera età adulta. Insomma, pur nel lieto fine, non ci viene nascosto il fatto che “non è finita qui”.

“Emotional rollercoaster” è una definizione di questo film che ho letto in giro; un arcobaleno emotivo, aggiungerei.

Penso che il modo in cui è raccontata questa semplicissima, banalissima storia vada a sollecitare le emozioni in maniera profonda e primaria, facendo sì che la fruizione sia davvero molto diversa a seconda della persona e del suo vissuto.

Concludo con una menzione d’onore per i titoli di coda, che, con molta ironia e in maniera assolutamente azzeccata, vanno a completare le tematiche affrontate, mostrandoci in azione le emozioni di tutte le persone che abbiamo incontrato durante il film. E non solo delle persone.

Io rivedrei tutto il film anche solo per rivedere il meraviglioso cervello del gatto. Anche quello del cane, ma quello del gatto è quanto di più indovinato si potrebbe produrre!

Non so se “Inside out” sia il migliore tra i film della Pixar, non m’interessa particolarmente, ma è assolutamente consigliato!